“Vie di Fuga”, ovvero il limen creativo
di Marco Grossi
(docente di Storia del Cinema e del Video)
Nel cinema, le sbarre sono utilizzate sia per esprimere visivamente un contenimento architettonico, un confine tra una dimensione fisica e un’altra (il “fuori” della vita libera e il “dentro” del luogo circoscritto, isolato dalla società), che per sottolineare verbalmente la restrizione («finirai dietro le sbarre» et similia), o ancora come figura retorica che simboleggia la barriera esistenziale del detenuto, impossibilitato a gestire liberamente la propria individualità fino a quando non completerà il proprio percorso riabilitativo.
L’estetica dei film sugli istituti penitenziari è così sclerotizzata che ripensarla diventa quasi inimmaginabile. Senza dover riavvolgere con la memoria tutti i chilometri di pellicola ad ambientazione carceraria che si sono sedimentati in ciascuno di noi spettatori, basti citare a titolo esemplificativo i fotogrammi iconici delle mani e delle braccia di Giulietta Masina e Anna Magnani che in «Nella città l’inferno» (Renato Castellani, 1959) si aggrappano alle sbarre della cella e sgusciano tra di esse come tentacoli di polpi imprigionati che non possono agguantare la libertà.
Di sbarre chiuse e di mani e braccia protese verso l’esterno ne abbiamo viste a migliaia e hanno ormai saturato il nostro immaginario cinematografico. Nel cortometraggio «Vie di Fuga» (Michela Carobelli, 2024, 18’) predominano invece le sbarre aperte: rappresentano varchi d’accesso, squarci entro i quali si incunea un movimento quasi incessante.
Quello della professoressa Martina, al suo primo giorno di lezione in una Casa Circondariale, che si inoltra in spazi a lei (e a noi) ignoti e dal volto fa trasparire tutto il proprio smarrimento.
Quello dei detenuti, che escono dalle celle, valicano i corridoi, entrano nei laboratori e nelle aule, si dirigono nell’area esterna per un’attività laboratoriale, accedono alla sala colloqui per l’incontro con i parenti (una delle scene più pregnanti, filmata in un silenzio assoluto e in un’atmosfera di sospensione, di attesa che una porta si apra e che per fortuna non vediamo aprirsi, scongiurandosi così quell’effetto mèlo di cui trasuda la produzione audiovisiva mainstream).
Quello dell’agente di Polizia penitenziaria, che come un Virgilio contemporaneo accompagna, guida, scorta con professionalità e premura sia la docente che i detenuti nei diversi spazi della cittadella di reclusione.
Grazie a questo “ritmo” interno, la Casa Circondariale ci si mostra per quello che realmente è: un luogo pulsante di vite, di esperienze professionali, di attese, di attività laboratoriali che per i ristretti rappresentano un’occasione per delineare nuove prospettive e riscattarsi.
Il limen con l’esterno è affidato alla luce. Quella naturale rischiara con la sua molle radiosità e quasi abbaglia quando si oltrepassano le mura (incisivo è l’effetto luministico dell’uscita verso l’area dell’apicoltura). Di contro la luce artificiale degli algidi neon ci fa percepire un luogo “altro”: è una fonte luminosa alla quale l’occhio può anche abituarsi ma che la mente fatica ad accettare perché scandisce i ritmi di giorni tutti uguali. Di quei giorni, noi spettatori ne viviamo soltanto uno, che si fa sineddoche di una ripetuta quotidianità.
Le inquadrature, i movimenti di macchina e la scansione del montaggio di Francesco Scatolini assecondano una scelta di regia delicata, sinuosa, quasi fluida. Siamo “dentro” la Casa Circondariale ma mai staticamente, il campo visivo è sempre mutevole, alternandosi in continuazione totali, campi medi, figure intere, primi piani, campi e controcampi, carrellate vellutate, in una sorta di abbecedario del linguaggio cinematografico che la regista non esibisce ma mette con naturalezza al servizio del racconto. Avere effettuato le riprese in un istituto penitenziario e con il coinvolgimento dei reclusi sia in veste di interpreti che di collaboratori tecnici, con tutte le difficoltà e limitazioni che ciò ha comportato, non fa che accrescere l’importanza del cortometraggio.
La sceneggiatura, firmata a quattro mani da Michela Carobelli e Francesco Scatolini, alterna e fonde con grande naturalezza diversi registri narrativi, cui contribuisce l’efficace colonna sonora di Lorenzo Borseti: a un incipit con lievi venature thriller fa seguito una narrazione distesa che si arricchisce di venature di intensità emotiva e finanche di elementi di commedia. Il tutto, nella sua veste diegetica indiscutibilmente filmica, assume una dimensione di autenticità, avvalorata da un côté per nulla finzionale, poiché durante la lavorazione del film alcuni degli attori-reclusi che aspirano al riscatto hanno davvero valicato la soglia del luogo di detenzione per fine pena, tornando uomini liberi. Le vie di fuga evocate dal titolo del cortometraggio sono quindi, in tutta evidenza, metaforiche, concretandosi nella volontà da parte dei detenuti di lasciarsi alle spalle gli errori del passato scontando la pena rieducativa e affrontando un percorso di crescita personale attraverso la formazione scolastica e professionale, che può offrire loro opportunità concrete di reinserimento sociale.
Scorrono, infine, i titoli di coda. Che anziché accomiatarci ci regalano un gustoso easter egg, a ricordarci che siamo tutti uguali. E non importa se al di qua o, temporaneamente, al di là di quelle sbarre.
«Vie di Fuga» accoglie con la sua morbida forza centripeta i nuclei di decine di storie – sia degli “studenti reclusi” nella Casa Circondariale di Terni che degli agenti di Polizia penitenziaria e dei docenti dell’IPSIA Pertini che vi operano – che un’auspicabile energia produttiva potrebbe far fluire singolarmente per dare ad esse ampio respiro.
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